Apocalittici e georeferenziati
Global Positioning System
La georeferenziazione è una risorsa strategica del Web 2.0. Ogni utente della rete dialoga a partire dalla sua posizione nello spazio e la sua posizione può essere mappata e registrata nei database dei principali research engine disponibili. Significa che ogni nostra azione e ogni contenuto da noi diffuso in rete viene automaticamente riferito ad un contesto territoriale rappresentabile tramite un’immagine di grafica tridimensionale. Sviluppata come tecnologia militare negli anni Sessanta, la georeferenziazione, attraverso la riproduzione grafica sempre più sofisticata di una determinata porzione del globo, permetteva alle truppe statunitensi di disporre di una documentazione dettagliata della natura del territorio da esplorare. Ogni modello prodotto veniva quindi classificato e depositato nell’archivio della società Martin Marietta, partner essenziale nello sviluppo di cellule di intelligence coordinate dal Pentagono. Con l’avvento dei computer, si avviò un processo di digitalizzazione delle mappe raccolte e catalogate. Grazie al confronto con le foto satellitari, i files diventavano sempre più fedeli alla realtà da riprodurre. Resosi conto delle potenzialità del servizio, alla fine degli anni Novanta Google procede all’acquisizione dei preziosi archivi della Martin Marietta, nel frattempo svincolati dal segreto militare. Nasce così Google Earth.
Hyperlocal news: la speranza del giornalismo nell’era del Web 2.0?
Le applicazioni che sfruttano il cosiddetto GPS (Global Positioning System, Sistema di Posizionamento Globale) hanno trasformato il nostro modo di orientarci nel pianeta e il nostro modo di rapportarci gli uni con gli altri. a metà degli anni Duemila, si sviluppano progetti con l’obiettivo di integrare il sistema al ciclo di produzione delle notizie, in particolar modo delle news televisive, che più degli altri canali informativi si basano sull’uso delle immagini per contestualizzare territorialmente un evento. I sistemi di mappatura tridimensionali già esistenti vanno a supportare il flusso di notizie grazie a strumenti simili ai feed RSS (acronimo di Really Simple Syndication), celebre applicazione basata sul linguaggio marcatore XML e su un formato che permette agli utenti di essere aggiornati, in tempo reale, sui contenuti digitali di loro interesse, come ad esempio articoli o commenti postati su siti, blog e piattaforme di microblogging, senza doverli cercare manualmente uno ad uno.
Ogni notizia viene agganciata ad un contesto territoriale preciso, visivamente attraverso le mappe georeferenziate e testualmente tramite le parole del reporter, con il vantaggio di tempi di realizzazione immediati, in linea con le tendenze del Real Time Web. Nel giro di pochi minuti è possibile andare in onda con un servizio praticamente in diretta, abbattendo i costi.
Soltanto due anni fa, il mercato hyperlocal veniva salutato come il salvatore di un giornalismo tradizionale zoppicante, incapace di cogliere le sfide del digitale. La fiducia nei confronti delle sue potenzialità sembrava avvalorata dalla proliferazione in rete di siti come Everyblock.com, o ancora le piattaforma Outside.in e OpenFile, o gli esperimenti dei grandi marchi editoriali come il New York Times con il suo blog The Local, incaricato di monitorare il flusso di notizie dei quartieri newyorkesi di Fort Greene e Clinton Hill. Si tratta di motori di contenuti, che presentano un elenco di città. Inserendo nell’apposito menu a tendina il relativo codice postale, immediatamente il sito è in grado di reperire un robusto stream di informazioni: dalla cronaca locale alle indicazioni di servizio, dalle comunicazioni amministrative ai calendari con gli eventi della settimana, fino ai rumors provenienti dai social network per quella specifica zona. La logica di selezione è quella tipica del web: il sito setaccia la rete alla ricerca di fonti grazie al cloud computing, che permette sia di catalogare semanticamente i diversi testi trovati, sia di contestualizzarli geograficamente. Le fonti vengono quindi indicizzate, monitorate con una funzione di screen scraping e implementate con fonti aggiuntive, provenienti ad esempio dai siti istituzionali. È la redazione giornalistica che deve creare, in base alle proprie competenze professionali e senso critico, il giusto apporto delle diverse fonti, trasformandosi così da centro di produzione diretta in una sorta di hub multimediale all’interno del quale i reporter rivestono il ruolo di terminali atti a captare, analizzare, verificare e infine smistare i flussi di circuiti informativi esterni.
I benefici, soprattutto per le grandi redazioni nazionali televisive che contengono nella propria mission la copertura di porzioni di territorio locali, come quartieri, piccole e grandi città, sono enormi. Le redazioni locali tradizionali lavorano in condizioni di perenne pressione, dovendo processare in pochissimo tempo una mole di eventi dal quale estrapolare le notizie del giorno, che vengono poi documentate da una troupe, prontamente inviata sul posto. Un modello operativo insostenibile economicamente, che rischia di inficiare la qualità del prodotto informativo: non c’è tempo per approfondire, per entrare in relazione diretta con le comunità locali. Laddove le imprese editoriali televisive non riescono a presidiare efficacemente il territorio, si creano, in particolare sul web, una serie di iniziative bottom-up (dal basso) che cercano di colmare il gap informativo: la rete pullula di siti non professionali che riportano le notizie di interesse per community geograficamente sempre più circostanziate. Dalla pagina web della squadra di calcio locale fino alle web tv delle Asl, veri e propri esempi di giornalismo di servizio digitale. L’autonomia comunicazionale di queste comunità, d’altra parte, raramente sfocia in una dimostrazione di professionalità giornalistica e, anzi, spesso confeziona prodotti informativi di scarso valore. Non solo. La vicinanza ai propri lettori e l’utilizzo intelligente degli strumenti messi a disposizione dalle nuove tecnologie che caratterizzano l’hyperlocal journalism, incarnano due ingredienti essenziali dell’era social media: partecipazione e condivisione. Il giornalismo iperlocale dà cioè ai cittadini l’opportunità di contribuire attivamente al ciclo di produzione della notizia, grazie a soluzioni di tipo user generated content (contenuto generato dagli utenti), che arricchiscono il resoconto giornalistico professionale.
Le ragioni di un fallimento
Homepage di EveryBlock
Si muoveva in questa direzione OpenFile, impresa editoriale con sede a Toronto avviata nel 2010 e basata su una semplice intuizione: mettere a disposizione dei lettori tramite il web un “file aperto”, dove segnalare notizie e inserire immagini, commenti e video, successivamente sottoposti il vaglio della redazione di giornalisti professionisti, che ne verificano le fonti e, laddove i contenuti si rivelino interessanti, ne approfondiscono i temi. Un rapporto fiduciario con i lettori – e con la comunità – che non si esauriva con la pubblicazione della notizia, che poteva essere commentata e aggiornata dai navigatori anche una volta postata. Cosa non ha funzionato? A differenza delle altre piattaforme di giornalismo partecipativo, la startup canadese non vendeva a terzi i servizi e i reportage, nella convinzione che la notizia non fosse il “fine”, ma il “mezzo” per nuove forme di interazione. Il rapporto stesso con i lettori avrebbe rappresentato quel valore aggiunto che avrebbe dovuto solleticare l’appetito di inserzionisti e finanziatori. Così non è andata.
Simbolo per eccellenza del fallimento dell’hyperlocal journalism è però la chiusura di EveryBlock, testata partorita nel 2007 dalla mente dello sviluppatore Adrian Holovaty e dal portafoglio della Knight Foundation, che per l’avvio del progetto stanziò 1 milione di dollari. La formula è sempre la stessa: iperlocalità, uso di codici e dati in formato aperto, sperimentazione nel data-journalism. La parabola di Everyblock esemplifica il naufragio delle speranze legate al giornalismo iperlocale. L’avveniristico aggregatore di notizie di Holovaty viene prima acquistato nel 2009 dalla MSNBC per diversi milioni di dollari, poi venduto nel 2012 alla NBC, per la quale diventa un elevato costo di bilancio più che un’opportunità per diversificare il proprio portfolio digitale e rimpinguare le finanze.
L’anello debole che ha spezzato la catena dell’hyperlocal nel panorama giornalistico, in particolare americano, è rappresentato da un modello di vendita pubblicitaria non scalabile, che recluta i propri investitori in un parco inserzionisti privi o quasi di budget consistenti, come sono i piccoli imprenditori locali. Campagne di display advertising basate sul click rate di banner tradizionali sono spesso una perdita di tempo per aziende già ben radicate sul territorio, che per le quali è piuttosto il passaparola la chiave per un presidio sempre più ampio e profittevole della community di riferimento.
Il brand salverà l’informazione iperlocale?
Eppure, con le principali piattaforme internazionali che, una dopo l’altra, chiudono i battenti, c’è ancora chi considera l’opportunità di battere la strada dell’hyperlocal journalism, con mezzi però più solidi. L’ipotesi è che siano i grandi marchi a rilanciare, attraverso delle capital ventures, le sorti dei progetti iperlocali. Dopo tutto, se Everyblock & Co. sono falliti, è a causa di modelli di business inadeguati, e non perché non esista un pubblico interessato alle notizie legate a dimensioni di comunità. Le grandi imprese che non hanno necessità di raccogliere inserzionisti attraverso l’uso dei banner, sono infatti alla continua ricerca di una prospettiva per fornire ai propri utenti contenuti personalizzati. La prospettiva potrebbe essere appunto quella territoriale.
I successi italiani
Se il giornalismo iperlocale è in caduta libera negli Stati Uniti e in altri contesti, lo stesso non si può dire per l’Italia, nella quale questo nuovo approccio editoriale, ancora agli albori, sta già dando i primi frutti. A titolo d’esempio, citiamo i casi di Citynews e VareseNews. La prima è una piattaforma di informazione online attiva in 37 città Italiane. In linea con lo spirito collaborativo che caratterizza tanto il citizen quanto l’hyperlocal journalism, parte dei contenuti redatti sono inviati al sito dagli stessi lettori. L’impatto è più che positivo, con 22,6 milioni di visite ogni mese ed oltre 330.000 utenti registrati. Citynews permette di ricevere alert con le notizie in tempo reale di fatti accaduti nel raggio di 2 Km dalla propria casa, di personalizzare il flusso di notizie e di vestire i panni di inviato speciale, caricando contenuti. Recentemente il network ha annunciato la release di nuove applicazioni mobili per iPhone e smartphone, con sistema operativo Android. L’obiettivo è diventare una delle principali App per la categoria news. Le App danno inoltre la possibilità agli utenti di trasformarsi a loro volta e in qualsiasi momento in giornalisti e video/foto reporter (real time web).
VareseNews è una testata giornalistica, nata nel 1997 in provincia di Varese come mensile cartaceo e successivamente transitata sul web. Secondo una classifica basata su dati Audiweb risalente al 2007, VareseNews figura tra i primi 10 media on-line italiani. Interessante il percorso che ha condotto un piccolo giornale di provincia a risultati tanto importanti: nel 2004 il lancio di “Anche Io”, un evento che da allora la redazione organizza annualmente per incontrare i lettori, consolidando il ruolo della community e dell’iperlocalità. Nel 2007 la creazione di una web-tv associata e nel 2008 l’apertura di un network di blog dal titolo VaresePolitica, che ospita i diari digitali di alcuni politici di spicco della Regione Lombardia. Numerosi sono i servizi offerti alla comunità, dall’agenda degli eventi alla programmazione delle sale cinematografiche, al meteo, passando per le pagine dedicate all’interattività con e tra i lettori, con le quali VareseNews punta ad una sempre più stretta fidelizzazione degli utenti. Questa logica si amplifica grazie alla massiccia presenza della testata nei social network, con una pagina Facebook che ha quasi raggiunto i 60.000 fan. Parlando di sostenibilità economica, i finanziamenti sono garantiti per il 60-70% dalla pubblicità locale. Un dato sorprendente, se si considera che la maggior parte dei progetti editoriali dello stesso tipo all’estero sono falliti proprio a causa di un mercato pubblicitario locale asfittico, privo di risorse d’investimento e fondato su un modello di display advertising obsoleto, in cui è il buon vecchio banner a farla da padrone. La restante percentuale di entrate è formata dalla pubblicità rastrellata attraverso Google AdSense, da attività di consulenze e di comunicazione.
Sara Marmifero